sabato 8 marzo 2008

E noi cosa ci aspettiamo?

Il colonnello Aureliano Buendìa promosse trentadue insurrezioni armate e le perse tutte. Ebbe diciassette figli da diciassette donne diverse, che furono sterminati l'uno dopo l'altro in una sola notte, prima che il maggiore compisse trentacinque anni. Sfuggì a quattordici attentati, a settantatrè imboscate e a un plotone d'esecuzione. Sopravvisse a una dose di stricnina nel caffè che sarebbe bastata ad ammazzare un cavallo. Respinse l'Ordine del Merito che gli conferì il presidente della repubblica. Giunse ad essere comandante generale delle forze rivoluzionarie, con giurisdizione e comando da una frontiera all'altra, e fu l'uomo più temuto dal governo, ma non permise mai che lo fotografassero. Declinò il vitalizio che gli offrirono dopo la guerra e visse fino alla vecchiaia dei pesciolini d'oro che fabbricava nel suo laboratorio di Macondo. Malgrado avesse sempre cobattutto alla testa dei suoi uomini, l'unica ferita se la produsse lui stesso dopo aver firmato la capitolazione di Neerlandia che mise fine a quasi vent'anni di guerre civili. Si sparò un colpo di pistola nel petto e il proiettile gli uscì dalla schiena senza ledere alcun centro vitale. L'unica cosa che rimase fu una strada di Macondo intitolata al suo nome. Ciò nonostante, secondo quanto dichiarò pochi anni prima di morire di vecchiaia, nemmeno questo si aspettava il mattino in cui se ne andò coi suoi ventun uomini a riunirsi alle forze del generale Victorio Medina.

Tratto da "Cent'anni di solitudine" di Gabriel Garcìa Marquez.

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